Disturbo Ossessivo Compulsivo

Disturbo ossessivo-compulsivo: sintomi, cause e cura

Il Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è un disturbo diffuso e cronico, caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni, che interferiscono con la vita quotidiana, causando un disagio significativo.

I sintomi del Disturbo ossessivo compulsivo

Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, le ossessioni si manifestano all’improvviso, frequentemente e contro la volontà del paziente, e spesso provocano reazioni di ansia, paura o vergogna.
Quando l’ossessione si manifesta, cattura l’attenzione ed è molto difficile pensare ad altro.
Anche se si riesce a distrarsi dall’ossessione, il sollievo è solo momentaneo perché le ossessioni si ripresentano continuamente. Queste idee fisse sono sempre accompagnate da un tentativo del paziente di resistere, ignorandole, tentando di scacciarle dalla sua mente o neutralizzandole con altre idee o azioni.

Le ossessioni possono assumere tre forme:

  • Pensieri
  • Immagini
  • Impulsi

Le ossessioni sono avvertite come incontrollabili e il loro contenuto spesso è molto lontano dai valori, le convinzioni morali o la personalità del paziente.

Esempi di pensieri ossessivi:

  • “Ho dimenticato di chiudere la manopola del gas”
  • “Ci sono dei germi sulle mie mani”
  • “Ho ucciso qualcuno con la macchina”

Esempi di immagini ossessive:

  • Immagini blasfeme a sfondo religioso
  • Immagini a sfondo sessuale

Esempi di impulsi ossessivi:

  • Impulso di fare del male a una persona cara
  • Impulso di agire dei comportamenti sconvenienti in pubblico

Le compulsioni sono comportamenti o azioni mentali che la persona mette in atto in risposta a un’ossessione, ed hanno la funzione di ridurre il disagio provocato dalle ossessioni e di prevenire un qualche evento temuto.

Esempi di comportamenti compulsivi:

  • Lavarsi le mani
  • Riordinare
  • Controllare

Esempi di azioni mentali compulsive:

  • Contare
  • Pregare
  • Ripetere formule

Una compulsione è intenzionale: sebbene, infatti, possa diventare abituale o automatica, è un comportamento volontario messo in atto deliberatamente. Le compulsioni sono  ripetute più volte nel corso della giornata e spesso sono sempre uguali a loro stesse o seguono delle precise regole, tanto da essere definite anche cerimoniali o rituali. Le persone con Disturbo Ossessivo-Compulsivo sentono un forte impulso a mettere in atto le compulsioni e si sentono schiave di queste ultime, come se non ne avessero il controllo.

Tipologie di Disturbo ossessivo compulsivo

Il Disturbo Ossessivo – Compulsivo può assumere forme diverse. Ecco le principali tipologie di DOC, classificate in base ai sintomi ossessivi e compulsivi.

  • Disturbo ossessivo compulsivo di lavaggio e pulizia(Washers e Cleaners)
    • Le persone che soffrono di un Disturbo Ossessivo Compulsivo di lavaggio e pulizia sono ossessionate dal terrore di contrarre una malattia o essere contaminate o infettate da germi, batteri, virus o sostanze chimiche pericolose. Può essere presente anche la forte preoccupazione di infettare le altre persone.
    • Per eliminare ogni possibilità di contaminazione, esse mettono in atto uno o più rituali, come lavare le mani o i denti in modo eccessivo, fare lunghe docce o pulire la propria casa o gli oggetti di casa per molte ore.
    • La persona che soffre di un Disturbo ossessivo compulsivo di lavaggio e pulizia farà di tutto per evitare il contatto con le sostanze contaminanti. Potrebbe, per esempio, tenere chiuse certe stanze della casa o rifiutarsi di toccare cose che cadono a terra.
  • Disturbo ossessivo compulsivo di controllo (Checking)
    • Chi soffre di un Disturbo ossessivo compulsivo di controllo ha paura di essere responsabile, per propria negligenza, di eventi terribili (ad esempio, incendi o furti), di poter far del male a se stesso o alle altre persone.
    • La persona si sente costretta a controllare ripetutamente – e senza una reale necessità – di aver chiuso il gas (per prevenire un incendio), porte e finestre, le portiere della macchina o la saracinesca del garage (per prevenire i furti), o l’armadietto dei medicinali (per non provocare incidenti); di non aver investito involontariamente qualcuno con la macchina, di non aver commesso errori nel proprio lavoro o di non aver sbagliato a compiere qualche azione di routine. Di solito quando queste persone controllano la prima volta, subito dopo sono assalite dal dubbio se hanno controllato bene e devono controllare un’altra volta. Molte compulsioni di controllo non sono osservabili dall’esterno, perché si svolgono soltanto nella mente della persona che, ad esempio, ripercorre col pensiero tutte le azioni compiute in un certo lasso di tempo, per assicurarsi di averle svolte correttamente.
    • Per trovare sollievo, qualche volta, le persone che soffrono di DOC di controllo chiedono ad altri di prendersi la responsabilità di svolgere alcuni compiti, come chiudere la porta di casa quando escono.
  • Disturbo ossessivo compulsivo di ripetizione e conteggio
    • Nel Disturbo ossessivo compulsivo di ripetizione e conteggio, la persona si sente costretto a ripetere delle azioni precise, allo scopo di evitare che un pensiero ossessivo che lo spaventa si avveri. Questo tipo di pensiero viene chiamato “pensiero magico”: un esempio è il timore che ad un familiare possa accadere una disgrazia, se non vengono ripetute alcune attività o conteggi.
    • Le compulsioni di ripetizione e conteggio possono essere dirette ad ogni tipo di oggetto o azione, come contare le mattonelle, i semafori rossi, pensare a delle serie di numeri o schemi. Come per il DOC di controllo, queste persone tentano di prevenire o neutralizzare possibili catastrofi ma, a differenza dei primi, non è possibile individuare una connessione logica fra l’ossessione e la compulsione, perché nel loro pensiero è espressa una componente magica.
  • Disturbo ossessivo compulsivo di ordine e simmetria
    • Chi soffre di un Disturbo ossessivo compulsivo di ordine e simmetria, ha pensieri, impulsi o immagini mentali che riguardano il posizionare oggetti o compiere azioni in modo “simmetrico” o “perfetto”.
    • Con questa tipologia di DOC, i comportamenti compulsivi messi in atto possono comportare il disporre gli oggetti in un certo ordine – ad esempio per dimensione, colore o funzione –, rileggere o riscrivere le cose in modo eccessivo, ripetere attività di routine – come varcare avanti e indietro una porta o pettinarsi i capelli – in maniera eccessiva.
  • Disturbo ossessivo compulsivo di accumulo/accaparramento
    • Nel Disturbo ossessivo compulsivo da accumulo/accaparramento (o Hoarding), le ossessioni sono connotate dalla paura di buttare via gli oggetti, anche se questi sono completamente inutili, dal disagio provocato dagli spazi vuoti nella propria casa – e dal bisogno di riempirli – e dal piacere nel collezionare oggetti, usati e non.
    • Le compulsioni di accumulo variano dall’acquisto di più pezzi dello stesso oggetto al conservare oggetti acquistati senza utilizzarli, al raccogliere da terra oggetti usati o inutilizzabili, conservandoli in casa propria. Le persone affette da questo tipo di DOC non si rendono conto, se non parzialmente, dell’eccesso in cui incorrono, e sono solitamente le famiglie a richiedere un trattamento terapeutico.
  • Disturbo ossessivo compulsivocon ossessioni pure
    • Nel Disturbo ossessivo compulsivo con ossessioni pure, non ci sono rituali mentali né compulsioni, ma soltanto pensieri ossessivi. Si tratta di pensieri o, più spesso, immagini o impulsi, relativi a scene in cui vengono messi in atto comportamenti indesiderati e inaccettabili per la persona, privi di senso, pericolosi o socialmente sconvenienti. Gran parte di queste paure possono risultare comprensibili e razionali nel loro contenuto, tuttavia le misure intraprese per contrastarle e le loro conseguenze immaginate non sono correlate al rischio. Le tre aree in cui si concentrano, principalmente, queste paure, sono la superstizione e la conta (contare oggetti, vedere numeri fortunati o sfortunati o colori con significati particolari), la religione o la moralità (paura di non rispettare dei precetti religiosi, di essere omosessuale, pedofilo, perverso o sessualmente violento), e le ossessioni riferite al corpo (controlli eccessivi di parti del proprio corpo o funzioni – circolazione sanguigna, pressione – o sul proprio aspetto).

Diffusione del Disturbo ossessivo compulsivo

Il Disturbo ossessivo compulsivo è un disturbo abbastanza comune. Si stima che circa il 2-3% della popolazione manifesta questo disturbo nel corso della vita. Colpisce sia uomini che donne, è esteso a tutte le culture e compare con la stessa frequenza in tutto il mondo.

L’esordio del Disturbo ossessivo compulsivo è generalmente precoce. Circa un quinto dei pazienti né è colpito già in età infantile e nella maggioranza dei casi il disturbo ha inizio nella pubertà. Quasi tre quarti di tutti i pazienti viene colpito entro i 30 anni. Dopo i 40 anni è molto rara la comparsa del disturbo. Sulla base di questa distribuzione, l’età media in cui c’è l’esordio è intorno ai 22 anni.

In genere l’esordio è graduale ed è quasi impossibile risalire a un evento scatenante o a un periodo in cui il disturbo è diventato significativo.

Senza trattamento il Disturbo ossessivo compulsivo assume un carattere cronico e di lunga durata; solo il 20% guarisce spontaneamente.

Le cause del Disturbo ossessivo compulsivo

Non sono ancora state scoperte le cause, organiche o ambientali, del Disturbo ossessivo compulsivo. È per questo che, piuttosto che di cause, si preferisce parlare di “fattori di rischio”, cioè elementi che aumentano la probabilità che il DOC si manifesti. Tra questi, si annoverano la storia familiare (avere un familiare stretto che soffre di disturbo ossessivo compulsivo), eventi di vita traumatici o estremamente stressanti e la presenza di altri disturbi mentali, come l’abuso di sostanze o la depressione.

Il Trattamento del Disturbo ossessivo compulsivo

L’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nel trattamento del Disturbo ossessivo compulsivo è ormai scientificamente comprovata; può essere scelta come trattamento d’elezione oppure combinata con il trattamento farmacologico, in entrambi i casi con un’ottima efficacia clinica.

Lo scopo è di trovare modi per imparare che le paure sono infondate e possono essere affrontate senza rituali. Si tratta di un lavoro congiunto tra paziente e terapeuta:  il paziente impara ad esporsi (gradualmente e solo quando si sente pronto) agli oggetti o alle situazioni temute, e a prevenire la risposta di neutralizzazione abituale (rituali, evitamenti, ecc.). Ad esempio, ad una persona che teme contagi potrebbe venir richiesto di toccare persone da lei considerate “pericolose” (esposizione) e di non lavarsi dopo (prevenzione della risposta). In questo modo il soggetto impara che il fare le cose che lo preoccupano è possibile, senza che le conseguenze temute si manifestino.

Di solito l’esposizione si svolge con una modalità graduale, iniziando con i compiti più facili e procedendo con quelli più difficili. I cambiamenti, infatti, devono avvenire un passo alla volta, e sempre secondo il ritmo del paziente.

Per alcune persone che compiono pochi rituali o nessuno, in cui il problema principale sono gli stessi pensieri temuti, potrebbero anche essere necessari trattamenti diversi che implicano l’apprendimento sia del controllo dei pensieri, sia di modi per preoccuparsi meno di essi, in modo che diventi più facile gestirli e, infine, estinguerli.

I disturbi correlati al Disturbo ossessivo compulsivo:

Se vuoi approfondire la tematica del Disturbo ossessivo compulsivo:

Ipocondria

Ipocondria significato – La paura delle malattie

L’ ipocondria, la paura delle malattie, è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale. I pazienti sono molto attenti ad ogni piccolo cambiamento somatico e tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia. Per tale ragione gli ipocondriaci richiedono così di frequente ripetuti test diagnostici e visite mediche, diventando ospiti abituali di ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’esito favorevole delle indagini non riduce, tuttavia, la preoccupazione e non riesce a rassicurare i pazienti. Gli ipocondriaci, purtroppo, nutrono la ferma convinzione che i medici con cui sono venuti a contatto non siano stati in grado di capire la vera natura del loro problema e quindi di fornirne una soluzione adeguata.

La persona affetta da ipocondria interpreta in modo erroneo segnali fisici innocui, come se fossero l’evidenza di una grave malattia. Si preoccupa sia delle normali funzioni corporee (quali il battito cardiaco, la peristalsi o la sudorazione) che delle alterazioni fisiche di lieve entità (come ad esempio il raffreddore o un colpo di tosse).

 

Ipocondria – Storia del termine e inquadramento nosografico

Il termine ipocondria deriva dal greco ὑποχόνδρια (dal suffisso ὑπό=sotto e χονδρίον=cartilagine del diaframma costale). In epoca antica indicava un disturbo che si riteneva essere localizzato nella fascia addominale e già nel II secondo d.C. era utilizzato nell’ambito della dottrina ippocratica degli umori. Nel 1845 la patologia fu inserita da Wilhelm Griesinger tra gli stati depressivi psichici, sebbene come forma minore e più lieve di altri disturbi. Emil Kraepelin nel 1896 suggerì una interessante distinzione tra hypochondria cum materia, ovvero con disturbi reali ma sopravvalutati, e hypochondria sine materia, ovvero senza alcuna basa oggettiva.

Ipocondria in psicologia

Oggi l’ipocondria (o Disturbo da ansia di malattia, come definito dal DSM-5) è caratterizzata dall’interpretazione erronea di segni e sintomi fisici come segnali di una grave patologia, senza che un’adeguata valutazione medica giustifichi tali timori. L’incidenza dell’ ipocondria nei campioni clinici va dallo 0.8 al 9.5% (Creed & Barsky, 2004; Fink et al., 2004). L’età più comune di esordio è la prima età adulta, mentre il decorso è generalmente cronico, anche se talora si verifica una completa remissione.

Secondo l’ultima versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA, 2013), l’ ipocondria è classificata all’interno dei disturbi da sintomi somatici con il nome di disturbo da ansia di malattia. Per porre diagnosi per tale disturbo sono richiesti i seguenti criteri:

  • A. Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.
  • B. I sintomi somatici non sono presenti o, se presenti, sono solo di lieve intensità. Se è presente un’altra condizione medica o vi è un rischio elevato di svilupparla, la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.
  • C. E’ presente un elevato livello di ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo il proprio stato di salute.
  • D. L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute (per es., controlla ripetutamente il proprio corpo cercando segni di malattia) o presenta un evitamento disadattivo (per es., evita visite mediche e ospedali)
  • E. La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi, ma la specifica patologia temuta può cambiare nel corso di tale periodo di tempo.
  • F. La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale, come il disturbo da sintomi somatici, il disturbo di panico, il disturbo d’ansia generalizzata, il disturbo di dismorfismo corporeo, il disturbo ossessivo-compulsivo o il disturbo delirante, tipo somatico.

Come ben si puntualizza nel DSM-5, il disagio dell’individuo non proviene principalmente dal sintomo in sé, quanto piuttosto dall’ansia derivante dal senso, il significato o la causa attribuitavi (APA, 2013).

Per non confondere il disturbo da ansia di malattia con il disturbo delirante tipo somatico, è bene ricordare che i pazienti che soffrono di disturbi psicotici non ammettono la possibilità che la malattia temuta non sia presente, cosa che spesso accade negli ipocondriaci. Inoltre, le idee di chi soffre di ipocondria non raggiungono la rigidità e l’intensità riscontrate nei deliri somatici che si verificano nei disturbi psicotici (per es., schizofrenia, disturbo delirante, tipo somatico, etc.)

Ipocondria sintomi

Una delle caratteristiche che contraddistingue l’ ipocondriaco, è la continua attenzione rivolta alle proprie sensazioni corporee o segni fisici, allo scopo identificare la malattia temuta. I pazienti con ipocondria si preoccupano, ad esempio, delle loro funzioni corporee (per es., il battito cardiaco, la peristalsi, etc.), delle alterazioni fisiche di lieve entità (per es. una piccola ferita); oppure sensazioni fisiche vaghe o ambigue (per es. cuore affaticato, vene doloranti). In alternativa ci può essere preoccupazione per un organo specifico o per una singola malattia (per es., la paura di sviluppare un cancro). Gli ipocondriaci, inoltre, si allarmano facilmente, anche solo sentendo che qualcun altro si è ammalato o leggendo una notizia legata alla salute. E’ poi molto frequente che il paziente esponga la propria storia medica in modo esteso e con molti dettagli.

Le preoccupazioni degli ipocondriaci non diminuiscono, anche a seguito di opportune rassicurazioni da parte dei medici, di esami diagnostici negativi e di un decorso benigno. In aggiunta, gli individui con questo disturbo sono generalmente insoddisfatti delle cure mediche ricevute, arrivando a giudicarle inutili, e spesso hanno la sensazione di non venir presi sul serio dai medici. I pazienti spesso si rivolgono ai familiari, agli amici e ai partner in cerca di rassicurazioni che però gli offrono un sollievo limitato nel tempo, che si esaurirà completamente all’insorgere del prossimo dubbio. Il paziente con ipocondria, infine, spende molto tempo navigando in Internet o consultando testi e materiale informativo alla ricerca di maggiori prove che corroborino le sue ipotesi.

Le relazioni sociali risentono del comportamento del paziente che continuamente si preoccupa della propria condizione e spesso si aspetta considerazione e trattamenti speciali. Anche in famiglia possono crearsi tensioni, poiché l’attenzione viene focalizzata intorno al benessere fisico del soggetto. Possono non esserci effetti sul funzionamento lavorativo dell’individuo, a patto che il paziente ipocondriaco riesca a limitare l’espressione delle sue preoccupazioni al di fuori dell’ambiente lavorativo. Più spesso le preoccupazioni interferiscono con la prestazione e portano a reiterate assenze dal lavoro.

Possibili cause e significati dell’ipocondria

Il paziente ipocondriaco non riconosce la natura psicologica del suo disturbo e persevera nel cercare una spiegazione medica al suo disagio. Il timore di sviluppare una patologia medica rivela pertanto un grande senso di vulnerabilità, che sarà il target delle psicoterapia.

Riguardo alle probabili cause dell’ ipocondria, è stato ipotizzato che malattie gravi vissute nell’infanzia ed esperienze pregresse di malattia di un membro della famiglia siano associate al manifestarsi dei sintomi ipocondriaci. Alcuni, invece, ritengono che questo disturbo riveli certe disposizioni, rappresentazioni e tratti di personalità del paziente (per es., tendenza eccessiva al controllo).

A questo proposito, è stato osservato come i pazienti con ipocondria possiedano un’immagine di sé caratterizzata dalla assunzione di essere una persona fragile, vulnerabile, debole e con ridotte difese immunitarie. Tale credenza costituisce uno dei perni intorno al quale si costruisce il senso della propria identità. Essa trae origine dal rapporto con le figure significative nella prima infanzia: spesso, infatti, la figura d’attaccamento rispecchia tale immagine di debolezza, perpetuata sia con messaggi espliciti che con atteggiamenti iperprotettivi.

Altri psicologi hanno posto l’accento sullo scopo che l’ ipocondria riveste nella vita del paziente. Sono stati quindi ipotizzati tre potenziali scopi: lo scopo di non ammalarsi, lo scopo di non essere persone fragili, deboli o ansiose ed infine lo scopo di vivere in modo prudente, dimostrando le proprie responsabilità.

Secondo altri psicologi, il corpo rivestirebbe il ruolo di nostro punto di contatto con il mondo esterno, rappresenterebbe la nostra immagine allo specchio e spesso il modo in cui percepiamo interamente noi stessi. Quindi, in questo senso, la fragilità del corpo sarebbe direttamente collegata con la fragilità mentale dell’individuo.

L’ ipocondria, inoltre, si accompagna spesso al timore della morte, una paura antica e condivisa dall’intera umanità che il paziente tenterebbe di controllare attraverso continui esami medici tesi a rassicurarsi e ad allontanare le fantasie concernenti la propria vulnerabilità.

Il focus della terapia, perciò, sarà non tanto rassicurare il paziente del fatto che non contrarrà nuove malattie, quanto l’invito alla consapevolezza dell’inevitabilità di questi eventi. Solo attraverso l’accettazione del nostro destino come esseri viventi, e quindi della caducità umana, il soggetto potrà tornare a comprendere ed apprezzare la vita nel suo complesso.

Ipocondria cura

Trattamento Cognitivo-comportamentale dell’ipocondria

La forma di psicoterapia che la ricerca scientifica ha dimostrato essere più efficace per l’ ipocondria è quella cognitivo-comportamentale (Barsky & Ahern, 2004; Bouman & Visser, 1998; Taylor, Asmundson & Coons, 2005; Olde Hartman et al., 2009). Tale terapia coinvolge attivamente il paziente nella risoluzione del disturbo e si concentra sull’apprendimento di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali. La terapia si articola principalmente in due fasi, chiamate ‘comprensione’ ed ‘esposizione’. Nella prima, il paziente è appunto invitato a comprendere il legame esistente tra piano cognitivo (pensieri) e comportamentale. Una tecnica utile per questo scopo può essere il modello ABC, grazie al quale il terapeuta può identificare le credenze irrazionali (secondo Ellis) o le distorsioni cognitive (secondo Beck) del paziente, per poi esortarlo a svilupparne di più funzionali. L’intero trattamento può essere perciò interpretato come la costruzione di un modello alternativo e più adattivo di comprensione dei sintomi corporei spiacevoli che il paziente sperimenta.

Molto importante è anche la parte psicoeducativa della terapia, tesa a fornire informazioni e delucidazioni rispetto all’ ipocondria. In seguito, il paziente è invitato indagare quali meccanismi o situazioni attivano la sua ansia. Nella seconda parte della terapia, quella relativa all’esposizione, verranno così illustrate tutte quelle strategie comportamentali che aiutano il paziente a confrontarsi passo a passo con la situazione temuta, fino a far perdere a quest’ultima la sfumatura angosciante che spinge il soggetto ad evitarla.

Trattamento Metacognitivo per l’ipocondria

All’interno del panorama cognitivista una delle terapie più promettenti per il trattamento dell’ ipocondria è la Terapia Metacognitiva (MCT) di Wells (2009) (Papageorgiou & Wells, 1998; Bailey & Wells, 2014). Secondo la terapia metacognitiva, lo stress psicologico è collegato alla sindrome cognitiva-attentiva (CAS, Cognitive Attentional Syndrome), che si sostanzia in un pensiero perseverativo che prende la forma di preoccupazioni (worries), ruminazione, strategie di coping maladattive (per es., controllare il proprio corpo in cerca di segni/sintomi di malattia), incrementato focus attentivo sulla minaccia e strategie di controllo del pensiero controproducenti. La teoria afferma inoltre che il CAS sarebbe guidato da credenze metacognitive (metacognitive beliefs) di natura sia positiva che negativa (per es.: ‘devo preoccuparmi riguardo i miei sintomi per prevenire la malattia’ e ‘non posso fermare le mie preoccupazioni prima di ricevere una diagnosi’) (Bailey & Wells, 2014).

Secondo la MCT, l’obiettivo del terapeuta è indagare e risolvere le credenze metacognitive che sostengono il disturbo, più che focalizzarsi sui suoi contenuti. Ad esempio, il rimuginio continuo dei pazienti ipocondriaci sostiene la preoccupazione di sviluppare patologie mediche, producendo nel soggetto sofferenza ed emozioni negative (i.e., ansia, depressione e rabbia).

Tra i meccanismi cognitivi di mantenimento coinvolti in questo disturbo troviamo l’attenzione selettiva, attraverso la quale il soggetto rivolge l’attenzione sul proprio corpo e sulle sensazioni somatiche. Un altro meccanismo è rappresentato dalle disfunzioni nel ragionamento. Il paziente, infatti, tende a svalutare l’importanza e veridicità dei risultati medici svolti, ad astrarre selettivamente informazioni sui sintomi (tralasciandone altre) che sta provando e drammatizza il significato degli stessi. A livello, comportamentale, inoltre, l’ ipocondriaco tende ad evitare quelle situazioni che possono esporlo a contrarre delle malattie. Facendo ciò, tuttavia, egli si preclude la possibilità di smentire il significato precedentemente attribuito ai sintomi, mantenendo di fatto il disturbo.

Alcune evidenze hanno già stabilito come la MCT possa essere un trattamento di elezione dell’ ipocondria. Ad esempio, è stato mostrato come molte credenze metacognitive siano positivamente correlate all’ ipocondria e come la metacognizione sia in grado di spiegare più varianza rispetto a molte variabili comunemente associate all’ ipocondria.

Depressione

Depressione

Il termine “depressione” viene utilizzato nel linguaggio comune quando si vogliono indicare tristezza, frustrazione, sfiducia e/o apatia. Nella pratica clinica, il termine “depressione” o “depressione Maggiore” si utilizza per indicare uno stato psicofisico di profonda sofferenza, che si protrae per un certo tempo (due settimane o più) e che interferisce con il normale funzionamento quotidiano.

Le persone depresse vedono se stesse, l’ambiente circostante e il proprio futuro in modo negativo, e questo ne compromette notevolmente la vita e le relazioni. Molto spesso chi soffre di depressione non viene compreso dalle persone che gli stanno intorno, anche dai più stretti familiari, che spesso utilizzano espressioni come “basta un po’ di buona volontà per risolvere tutto” o “tirati su e reagisci”.

Nonostante ci si possa sentire molto soli e incompresi quando si manifestano i sintomi della depressione, si deve tener presente che il disturbo depressivo è molto diffuso e che circa un terzo della popolazione potrebbe aver sofferto di un episodio di depressione nella propria vita, solo che in alcune persone questi sintomi si presentano in momenti specifici, in altre assumono un andamento cronico. Il disturbo depressivo può presentarsi in ogni fase della vita, a ogni età, sia negli uomini che nelle donne, indipendentemente dalle proprie caratteristiche di personalità e di temperamento (per esempio, sia nelle persone timide che negli estroversi).


Sintomi depressivi

La depressione è un disturbo dell’umore. Le persone depresse riferiscono la presenza di un tono dell’umore basso che le caratterizza per più di due settimane. Nella forma lieve i sintomi non si presentano tutto il giorno in quanto, ad esempio, alcune situazioni piacevoli potrebbero determinare un innalzamento del tono dell’umore e una riduzione della tristezza, a differenza di ciò che accade nella depressione grave in cui il tono basso dell’umore persiste tutto il giorno, indipendentemente dalla presenza di eventi piacevoli. Comunque, anche nella forma grave di depressione, si può identificare una fluttuazione dell’umore durante l’arco della giornata, che può essere peggiore al mattino e relativamente più alto nel pomeriggio.

Le persone depresse tendono a valutare se stesse in maniera negativa. Solitamente si innesca un giudizio di inadeguatezza e di indesiderabilità, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in loro. L’ambiente esterno e le persone circostanti diventano una fonte di sofferenza e di frustrazione, in grado di alimentare i pensieri di fallimento e insuccesso. Molte persone depresse possono avere problemi nelle relazioni interpersonali, anche rispetto ai membri della propria famiglia, che generano spesso insoddisfazione e infelicità. L’individuo matura la convinzione di non saper interagire adeguatamente, ritenendo che gli altri non saranno disponibili nei suoi confronti e sviluppando il timore che potranno solo peggiorare la sua situazione. Spesso si arriva a provare timidezza e ansia, soprattutto nelle situazioni di gruppo che possono esporre a rifiuto e critica. Le persone depresse, quindi, si sentono isolate e sole.

I sintomi depressivi possono essere raggruppati in  quattro principali categorie.

  1. SINTOMI DI TIPO SOMATICO E FISIOLOGICO
  2. SINTOMI DI TIPO COGNITIVO
  3. SINTOMI DI TIPO EMOTIVO
  4. AZIONI E COMPORTAMENTO

Il suicidio nella depressione

In molte delle persone depresse si riscontrano pensieri di morte o di suicidio. In alcuni casi viene riferita la presenza di un vago desiderio di “farla finita”, ma in altri si va a delineare una vera e propria pianificazione (precisa e dettagliata) del suicidio, che può essere o meno seguita dall’attuazione del tentativo.
Certamente la disperazione è un fattore di rischio importante. Il pessimismo e la perdita di speranza che accompagnano il depresso non gli consentono di visualizzare vie di uscita dalla sofferenza sperimentata ogni giorno. La vita diventa difficile e insostenibile, e ciò può portare a concepire il suicidio come unica forma di liberazione. Inoltre, durante il suo percorso di sofferenza il depresso si sente solo e incompreso, quindi oltre a un marcato senso d’impotenza e di bassa efficacia nel poter modificare gli eventi, anche l’impossibilità di trovare aiuto e appoggio da persone significative possono alimentare l’ideazione suicidiaria. In alcuni casi, al contrario, le persone depresse possono credere di essere un peso per i loro cari, tanto che pensieri ricorrenti possono essere quelli del tipo “sono convinto che starebbero meglio senza di me”. Si può anche arrivare ad accusarsi di essere la causa della rovina dei propri familiari, colpevolizzandosi del fatto stesso di essere depressi e di non essersi impegnati abbastanza per non esserlo, arrivando a vedere nel suicidio un modo per porre fine alle proprie colpe.
Se hai pensato o stai pensando al suicidio è importante rivolgerti subito a degli specialisti (psichiatri o psicoterapeuti).


Quali sono le cause della depressione?

E’ importante comprendere che la depressione non ha solo una causa, ma è la combinazione di fattori che interagiscono tra loro e che varia da persona a persona. Questi fattori possono essere raggruppati in due categorie principali: i fattori biologici e i fattori psicologici.

Fattori biologici

  • Fattori genetici

Le evidenze empiriche indicano che la tendenza a sviluppare depressione è una caratteristica ereditaria. La depressione, infatti, spesso si presenta nei membri della stessa famiglia, suggerendo l’implicazione di alcuni geni (come quello per il trasportatore della serotonina) nella vulnerabilità allo sviluppo della depressione. E’, però, importante tenere presente che essere vulnerabili a un disturbo non vuol dire necessariamente svilupparlo.

  • Neurotrasmettitori e Ormoni

La maggior parte della comunicazione fra le cellule del sistema nervoso è eseguita da sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori. La depressione sarebbe dovuta all’insufficiente attività di alcuni sistemi di neurotrasmettitori (per esempio, quelli monoaminergici) e alla conseguente diversa funzionalità di specifiche aree cerebrali che regolano il sonno, l’appetito, il desiderio sessuale e l’umore. Sono state riscontrate, inoltre, alcune modificazioni ormonali associate alla depressione nella fase precedente e durante l’episodio depressivo. L’azione dei farmaci antidepressivi, di conseguenza, è proprio quella di aumentare l’attività di alcuni specifici neurotrasmettitori e di modulare alcune modificazioni ormonali nel cervello.

Fattori psicologici

Il contenuto dei pensieri associati alla depressione è tipicamente caratterizzato da una visione negativa dell’individuo stesso e del mondo. I temi principali sono di fallimento e incapacità. Le persone depresse tendono ad assumersi la responsabilità degli eventi negativi (ma non di quelli positivi) che si verificano nella loro vita.

Molto spesso si nota la presenza di regole inflessibili su come dovrebbero andare le cose, come se le esperienze venissero classificate in categorie del tipo “bianco-nero”. Per quanto riguarda gli altri si tende a credere di sapere cosa stiano pensando e che ci sia una loro valutazione negativa, nonostante non vi siano elementi che giustifichino tale attribuzione.

Un aspetto importante è che gli stili cognitivi dell’individuo possono contribuire allo sviluppo della depressione. Ad esempio, per alcune persone la felicità è data dal raggiungimento di particolari obiettivi come superare un esame, ottenere un determinato lavoro o trovare il partner della vita, ma se per alcune ragioni non riescono a raggiungere questi obiettivi possono sperimentare il fallimento, che può indurre o aumentare la depressione.

In altri casi, è una serie di eventi stressanti a provocare lo sviluppo della depressione.

  • disoccupazione
  • problemi finanziari
  • malattie
  • difficoltà familiari o altre
  • cambiamenti significativi di vita

Infine, un concetto centrale è quello della “perdita”. Spesso le persone depresse sono esposte a eventi legati alla perdita come quella di una persona amata, di un lavoro o di una promozione. Ma la perdita come tema dominante del disturbo depressivo può essere già avvenuta o può esserci anche solo la convinzione che si verificherà; infatti ciò che è centrale è la sensazione di impotenza e sconfitta che si prova. Si parla, quindi, di eventi della vita che sono valutati come irreversibili e inaccettabili, che non lasciano spazio a una prospettiva esistenziale.


Fattori di rischio e di mantenimento per la depressione maggiore

FATTORI DI RISCHIO

La depressione può insorgere a qualsiasi età, ma alcune ricerche hanno evidenziato dei fattori che aumentano la possibilità di sviluppare depressione, alcuni sono:

  • sesso femminile
  • familiari affetti da depressione
  • presenza di esperienze traumatiche infantili
  • esposizione a eventi molto stressanti (come un lutto)
  • povertà e disoccupazione
  • assenza di una buona rete di supporto sociale (amicale e/o parentale)
  • presenza di malattie gravi (come il cancro)
  • abuso di alcool o droghe

La presenza di uno o più di questi fattori non significa che necessariamente si svilupperà una sintomatologia depressiva (così come persone, senza nessuno di questi fattori di rischio, possono diventare depresse), ma certamente può facilitarne l’insorgenza.

FATTORI DI MANTENIMENTO

I fattori di mantenimento sono quei meccanismi che possono stabilizzare e cronicizzare quello che, a volte, poteva essere un episodio depressivo isolato.

  • SCHEMI DEPRESSOGENI
  • LA RUMINAZIONE:
  • VALUTAZIONE DEI PROPRI SINTOMI DEPRESSIVI
  • ISOLAMENTO

Trattamenti per la depressione

Soprattutto in casi di depressione grave, per tutti i fattori fisiologici esposti nella sezione precedente, il trattamento farmacologico risulta necessario, efficace e non provoca dipendenza (va comunque effettuato in conformità con le indicazioni del medico!). Ci sono, però, due informazioni importanti da sottolineare: non tutte le persone rispondono agli antidepressivi (casi di farmaco-resistenza in cui il farmaco non ha alcun effetto); i farmaci possono sensibilizzare alla depressione stessa.

Sono state sviluppate delle modalità terapeutiche che possono essere integrate con l’approccio farmacologico e anche, in molti casi, sostituirlo in toto, dal momento che la depressione è caratterizzata da convinzioni, pensieri e comportamenti che la mantengono e alimentano. Ricordati che rivolgendoti ad uno psicoterapeuta potrai conoscere e intraprendere la tipologia di trattamento più indicata per te.

Alcuni trattamenti psicologici sono empiricamente fondati per la loro efficacia. In particolar modo, una terapia psicologica è risultata molto efficace per il trattamento della depressione: la Terapia Cognitivo Comportamentale.
La Terapia Cognitivo Comportamentale mette in relazione pensieri, emozioni, comportamenti allo scopo di individuare le credenze disfunzionali e i meccanismi di mantenimento che sostengono e alimentano la sofferenza psicologica.
In primo luogo, questo tipo di terapia pone attenzione ai comportamenti che le persone mettono in atto in circostanze di disagio e sofferenza. Nello specifico, gli individui depressi si sentono apatici, poco motivati, spesso restano in casa e non vogliono uscire e interagire con gli altri. Un obiettivo centrale sarà, quindi, identificare e modificare aspetti del comportamento che possono perpetuare e peggiorare la depressione, perché allo specifico cambiamento di alcuni comportamenti problematici (ad esempio l’isolamento) del depresso consegue un effetto benefico sull’umore. Alcune strategie comportamentali sono:

  • la definizione di obiettivi
  • la programmazione delle attività piacevoli
  • il training di abilità sociali
  • il problem solving

Successivamente si aiuteranno gli individui a capire come i pensieri possono influenzare il loro umore, andando quindi a identificare e modificare i loro pensieri e credenze. Quando le persone sono depresse, infatti, hanno pensieri negativi su se stesse, sulla vita, sugli altri, sul proprio futuro, e ciò ne peggiora l’umore. E’ necessario, quindi, scoprire questi pensieri disfunzionali per svilupparne dei nuovi e rendere meno rigide le proprie convinzioni, individuando possibili interpretazioni alternative, a partire da un singolo evento.
La Terapia Cognitivo Comportamentale inoltre ha il vantaggio di essere strutturata, di breve durata e focalizzata sul “qui e ora”.
La Terapia Cognitivo Comportamentale ha un duplice scopo:

  • ridurre i tempi della guarigione;
  • ridurre la possibilità di eventuali ricadute in futuro.

Il terapeuta cognitivo comportamentale aiuterà il paziente ad identificare e cambiare i modi di pensare (fattori “cognitivi”) e i comportamenti (fattori “comportamentali”) distorti che lo mantengono in stato depressivo, a ristabilire i precedenti livelli di attività, a riprendere le proprie relazioni sociali, e soprattutto a prevenire eventuali ricadute riconoscendo i sintomi della depressione appena si manifestano.

Attacchi di Panico e Crisi d'Ansia

Attacchi di panico: Sintomi, Cause e Cura efficace

Attacchi di panico indice:

  • Cosa sono gli attacchi di panico
  • Quali sono i sintomi attacchi di panico
  • Quando si parla di disturbo di panico
  • Quali sono le cause degli attacchi di panico
  • Quali sono le conseguenze attacchi di panico
  • Come si curano gli attacchi di panico ed il disturbo di panico

Cosa sono gli attacchi di panico?

L’attacco di panico è un breve episodio di ansia intollerabile che dura al massimo 20 minuti. E’ caratterizzato da sentimenti di apprensione, paura o terrore: la persona vive un senso di catastrofe imminente e ha spiccate manifestazioni neurovegetative. Possono esserci anche esperienze di depersonalizzazione e derealizzazione.

L’attacco di panico arriva come un fulmine a ciel sereno, improvvisamente. È questo il motivo per cui le persone ne sono tanto spaventate. La realtà, invece, è diversa: l’attacco di panico ha sempre un fattore scatenante, anche quando non si è in grado di riconoscerlo come tale, come si vedrà meglio in terapia.

Quali sono i sintomi degli attacchi di panico?

I sintomi fisici più comuni dell’attacco di panico sono:

  • Palpitazioni, cardiopalma o tachicardia
  • Sudorazione
  • Brividi o vampate di calore
  • Tremori fini o a grandi scosse
  • Parestesie
  • Dispnea o sensazione di soffocamento
  • Sensazione di asfissia
  • Dolore o fastidio al petto
  • Nausea o disturbi addominali
  • Sensazioni di sbandamento, instabilità, testa leggera o senso di svenimento
  • Derealizzazione o depersonalizzazione
  • Paura di perdere il controllo o di impazzire
  • Paura di morire

Anche i pensieri si modificano durante un attacco di panico. Le persone che hanno un attacco di panico temono che accadrà loro qualcosa di grave. Pensano, ad esempio, che moriranno, che impazziranno, che faranno una figura terribile… Pensieri come: “Avrò un infarto”, “Ora svengo” o “Morirò” sembrano così reali nel momento dell’attacco di panico da far sì che alcune persone arrivino a chiamare l’autoambulanza o vadano in ospedale.

Dopo aver provato una volta la spiacevole esperienza di un attacco di panico, la persona colpita teme ovviamente che possa accadere di nuovo. Si innesca, dunque, un circolo vizioso che può trasformare il singolo attacco di panico in un vero e proprio disturbo di panico. Si apprende così ad avere “paura della paura”. Il paziente, infatti, ha un coinvolgimento attivo e determinante nell’insorgenza e nella persistenza dell’attacco.

L’attacco di panico, infatti, è frutto di un processo continuamente rinforzato da molti aspetti, su cui la persona ha più controllo di quanto non creda. Vediamo, ad esempio, cosa succede ai pensieri.

I pensieri catastrofici fanno sì che i soggetti che hanno avuto attacchi di panico interpretino erroneamente i normali sintomi fisici dell’ansia e li vivano come reali pericoli. Queste sensazioni potrebbero essere, in realtà, dovute ad altri fattori: stanchezza, troppa caffeina, stress, mangiato troppo, dormito poco, ecc.  Se in una situazione ansiogena, ad esempio, si avvertono dei sintomi fisici di giramento di testa e si pensa “sto per svenire”, in terapia si imparerà a sostituire questo pensiero con “sto solo sperimentando sintomi fisici”, “non ho nessuna ragione di ritenere che sto per svenire”. Se, ad esempio, pensate “sto per morire”, sostituitelo con “è solo il battito del mio cuore, non sto per avere un infarto”.

Quando si parla di disturbo di panico?

Quando gli attacchi di panico sono ricorrenti, si parla di “Disturbo di panico”.

In questo caso gli attacchi di panico ripetuti influenzano l’intera esistenza del paziente, che manifesta una preoccupazione persistente non solo di avere un’altra crisi di panico, ma anche delle possibili implicazioni o conseguenze degli attacchi sulla sua vita e sul suo funzionamento. Questa preoccupazione deve avere durata superiore a un mese.

Quali sono le cause degli attacchi di panico?

Quanto è diffuso il disturbo di panico e quali sono le cause?

Gli attacchi di panico sono molto diffusi, soprattutto tra i giovani. Si stima che circa il 30% della popolazione urbana soffrirà, almeno una volta nella propria vita, di un attacco di panico.

Gli attacchi di panico fanno parte dei disturbi d’ansia. La maggior parte degli studiosi ritiene che siano la conseguenza dell’interazione di pensieri, emozioni e processi fisici. In genere, un periodo o un evento particolarmente stressanti possono scatenare il disturbo di panico in persone con una predisposizione genetica e psicologica ai disturbi d’ansia. Può succedere perciò che il normale livello d’ansia con cui tutti noi nasciamo, possa aumentare ed esplodere in episodi di panico, più o meno intensi, a seguito, ad esempio, di un evento stressante. I motivi per cui le persone soffrono di attacchi di panico sono numerosi. Tra le cause più diffuse ci sono:

  • La predisposizione genetica
  • Lo stress
  • Le preoccupazioni circa la propria salute
  • Sentimenti spiacevoli causati, ad esempio, da problemi o difficoltà personali o professionali

Quando questi non vengono affrontati o non possono essere affrontati per vari motivi, rimangono latenti, provocando nel tempo un aumento dell’ansia che potrà quindi superare una soglia e scatenare un attacco di panico. 

Attacchi di panico
Attacchi di panico

Quali sono le conseguenze degli attacchi di panico?

Quali sono le conseguenze degli attacchi di panico?

La principale conseguenza degli attacchi di panico è la tendenza ad evitare tutte le situazioni o le persone ritenute pericolose.

Coloro che soffrono di attacchi di panico cercano di fuggire il prima possibile dalla situazione o dagli individui che provocano loro ansia o malessere, evitano situazioni simili nel futuro, mettono in atto meccanismi che li rassicurino (portano con sé medicinali, se temono un attacco di cuore possono rimanere immobili, se hanno paura di soffocare apriranno una finestra o berranno dell’acqua, ecc.). È evidente che queste modalità di comportamento saranno molto limitanti per la loro vita. Anchei rapporti interpersonali (familiari, di coppia, di amicizia, ecc.) avranno serie difficoltà; si tenderà, infatti, a evitare tutte quelle situazioni percepite come ansiogene (uscire per incontrare persone, prendere l’aereo, frequentare luoghi affollati, andare al ristorante, al cinema ecc.). In alcuni casi si potrà progressivamente arrivare a non uscire più di casa.

Dal momento che, nel caso del disturbo di panico, ciò che si teme di più sono le proprie sensazioni fisiche, si tenderà a evitare anche tutte quelle attività o sostanze che aumentano l’attivazione fisiologica dell’organismo. Non si berranno più caffè o bevande eccitanti, si eviterà l’attività fisica o sessuale, si prediligerà uno stile di vita riposante e all’insegna della prudenza.

La paura dell’imminenza di un nuovo attacco, inoltre, produce uno stato di tensione generale e di irritabilità diffusa. È stato anche stabilito che gli attacchi di panico sono correlati ad altri disturbi quali la depressione e l’agorafobia (paura di camminare per strada, degli spazi aperti come le autostrade…).

Come si curano gli attacchi di panico ed il disturbo di panico?

Il trattamento del disturbo di panico

La Terapia Cognitivo Comportamentale è molto efficace nella cura degli attacchi di panico. Studi condotti in diversi paesi dimostrano che più dell’80% delle persone si libera degli attacchi di panico dopo un breve periodo di trattamento. La Terapia Cognitivo Comportamentale del disturbo di panico si prefigge 5 obiettivi principali:

  1. Scoprire e abbattere le fonti di stress
  2. Aumentare la tolleranza all’ansia o al disagio, ad esempio con la Mindfulness, e ristabilire un senso di sicurezza, riducendo la sensibilità alle sensazioni fisiche (tachicardia, tremore, respiro corto, ecc.) o mentali (paura di impazzire, di morire, di perdere il controllo) rilevanti per l’insorgenza degli attacchi di panico
  3. Indebolire l’interpretazione catastrofica errata e gli schemi di minaccia, paura e pericolo sottostanti agli stati fisici o mentali
  4. Incrementare le capacità di rivalutazione cognitiva che portano all’adozione di una spiegazione alternativa realistica dei sintomi che causano paura o angoscia
  5. Eliminare l’evitamento e altri comportamenti disfunzionali di ricerca di sicurezza

Al fine di raggiungere questi obiettivi, la Terapia Cognitivo Comportamentale si articola nelle seguenti componenti:

  • Educazione al modello di Terapia Cognitiva del Panico (il circolo vizioso)
  • Esperimenti comportamentali: induzione dei sintomi in seduta e come homework
  • Ristrutturazione cognitiva degli esiti catastrofici più temuti delle sensazioni fisiche
  • Esposizione graduata in vivo
  • Prevenzione delle ricadute

Uno dei primi obiettivi della Terapia Cognitivo Comportamentale è aiutare il paziente a capire che gli sgradevoli sintomi fisici che prova durante l’attacco di panico sono solo una conseguenza dell’ansia. Non sono, dunque, pericolosi: nulla di quello che teme accadrà veramente. Questa consapevolezza aiuta a interrompere il circolo vizioso dell’ansia ed evita un peggioramento delle sensazioni fisiche spiacevoli.

Gli esperimenti comportamentali giocano un ruolo particolarmente importante nel trattamento del panico. L’obiettivo è quello di dimostrare al paziente che può stare coi sintomi. Il risultato dell’esperimento viene osservato, monitorato e registrato, alla ricerca di prove a favore della spiegazione catastrofica e delle interpretazioni alternative delle sensazioni fisiche.

Gli esercizi di esposizione enterocettiva servono a suscitare proprio le sensazioni corporee simili a quelle che si manifestano spontaneamente in caso di ansia. Indurre volontariamente i propri sintomi vuole contraddire l’abitudine a sfuggirli ed evitarli, perché considerati pericolosi. L’obiettivo è, quindi, quello di mettere il paziente nelle condizioni di affrontare un episodio di tachicardia o vertigine e di superarlo senza ricorrere a mezzi di evitamento o fuga. Alla fine si impara che si tratta di episodi forse sgradevoli, ma certamente non pericolosi o mortali. E si è, quindi, in grado di affrontarli e di gestirli. Si suggerisce di continuare a eseguire gli esercizi, finchè la forza dei pensieri catastrofici non sia diminuita e sia, invece, significativamente aumentata quella dei pensieri non catastrofici.

La ristrutturazione cognitiva svolge due funzioni nella Terapia Cognitiva del Panico. Introduce un’evidenza contraria alle interpretazioni catastrofiche errate e offre una spiegazione alternativa alle sensazioni interne. È spesso utile cominciare la ristrutturazione cognitiva con una descrizione molto chiara degli esiti catastrofici più temuti e poi generare una lista di possibili spiegazioni alternative per le sensazioni fisiche. L’obiettivo della ristrutturazione cognitiva per i soggetti con panico è quello di realizzare che la loro ansia e i loro sintomi siano dovuti alle convinzioni errate che certe sensazioni fisiche sono pericolose, che avranno un esito nefasto, che saranno insopportabili e ingestibili, che sarà impossibile controllarle e resistervi, ecc. Il terapeuta e il paziente troveranno delle risposte alternative a queste interpretazioni, tramite svariate tecniche di ristrutturazione cognitiva.

Poiché molti individui con il disturbo di panico mostrano, come abbiamo detto, forme quanto meno lievi di evitamento agorafobico, l’esposizione graduata in vivo è una componente fondamentale della Terapia Cognitivo Comportamentale per il disturbo di panico. Quando l’evitamento agorafobico è grave, l’esposizione in vivo deve essere introdotta nel trattamento il prima possibile, al fine di creare l’abituazione ai sintomi e a mettere in discussione le cognizioni e le credenze catastrofiche del soggetto agorafobico. Nell’esposizione graduata in vivo il terapeuta aumenta gradualmente il livello di ansia in modo che il soggetto possa realizzare di essere in grado di gestire la situazione, persino con stati d’ansia elevati. Se il paziente non fugge, o non evita l’esposizione, la reazione ansiosa potrà toccare un picco, ma poi si ridurrà spontaneamente e il paziente, nel tempo, si troverà a fronteggiare le situazioni in precedenza temute, senza provare più panico.

Quando si riuscirà a sentirsi tranquilli in situazioni da cui fino a prima si fuggiva ci sarà una reazione che, sotto molti aspetti, può essere considerata un decondizionamento che avrà come conseguenza quella di modificare le aspettative catastrofiche del paziente.

Infine, nella prevenzione delle ricadute, Il terapeuta fa scrivere o scrive insieme al paziente quanto è stato appreso durante il trattamento, riguardo le cause del panico, i fattori di mantenimento, e i modi usati per superare il problema. Nel summarize (riassunto) verrà scritto, sotto la guida del terapeuta, cosa fare se i sintomi fisici inattesi si verificano o se il soggetto sperimenta una ricomparsa dell’ansia. Si dovrà, infine, chiedere al paziente di valutare, su una scala da 0 a 100, quanto sarebbe penoso per lui in futuro avere attacchi di panico. In questo modo è possibile prendere consapevolezza anche di eventuali problemi non ancora risolti.

Infine, dal momento che abbiamo visto quanto sia determinante il ruolo dello stress nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo di panico, è fondamentale adottare uno stile di vita sano e all’insegna della salute. Quindi, si privilegerà un’alimentazione corretta, si dormirà un numero adeguato di ore di sonno, si farà attività fisica e si praticherà la Mindfulness per tenere bassi i livelli di stress e ridurre così la possibilità di avere nuovi attacchi di panico.

Per coloro i quali hanno effettuato una Terapia Cognitivo Comportamentale per il panico ma presentano ancora una sintomatologia attiva, si consiglia di indagare con un professionista eventuali esperienze traumatiche passate e/o presenti che possano essere la vera causa sottostante della sintomatologia fisica del panico.

ansia

L’ansia è innata e fa parte della natura umana. È la normale risposta del nostro organismo che si prepara ad affrontare ciò che avverte come un pericolo. Abbiamo la sensazione di essere vulnerabili, anche se a volte non capiamo con certezza il perché.
Quando i nostri antenati si trovavano di fronte alla minaccia di animali feroci o popoli ostili, i cambiamenti che avvenivano nel loro corpo li preparavano alla lotta o alla fuga. Al giorno d’oggi i pericoli sono di tutt’altra natura, ma di fronte ad una situazione che ci mette paura, o che percepiamo come minacciosa, in noi si verificano gli stessi cambiamenti di allora. Quando l’ansia è moderata può risultare utile, perché ci mette in allerta di fronte a una situazione difficile permettendoci di reagire tempestivamente. Può diventare un problema reale quando è eccessiva rispetto alla situazione che ci troviamo a fronteggiare o dura troppo a lungo, al punto che fare la cosa più semplice può diventare uno sforzo enorme (parlare in pubblico, sostenere un esame, andare ad un appuntamento o ad una festa…).

disturbi d’ansia più diffusi sono:
•    Disturbo di panico (attacchi di panico)con o senza agorafobia
•    Disturbo d’ansia generalizzato
•    Ansia o fobia sociale
•    Fobie specifiche

disturbi d’ansia sono disturbi molto comuni. L’ansia è sicuramente la patologia per cui si richiede di più l’aiuto psicoterapeutico. Ne soffre circa 1 persona su 20.

Come si manifesta l’ansia?
L’ansia si manifesta diversamente da persona a persona, ma in genere le sue caratteristiche sono:

  • pensieri ansiosi (farò una figuraccia, non sarò all’altezza, mi sentirò male…)
  • emozioni ansiose (paura, timore, ansia)
  • sensazioni corporee alterate (tensione muscolare, respirazione veloce, battito cardiaco accelerato, sudorazione profusa, sensazioni di svenimento, vertigini…)
  • comportamenti alterati (agitazione, aumento/diminuzione appetito, evitamento di certe situazioni…).

Accade spesso che si instauri un circuito di ansia e tensione crescente, perché ognuna di queste reazioni influenza l’altra facendo crescere l’ansia sempre di più in noi. Quando i sintomi dell’ansia persistono per un periodo di tempo lungo e ripetuto parliamo di Disturbo di Ansia Generalizzato (GAD), se invece ci sono picchi di panico brevi, improvvisi e intensi si tratta del Disturbo di Panico (con attacchi di panico). In ogni caso, la risposta più comune di fronte a qualcosa che ci spaventa e ci fa stare male è scappare, ma il sollievo che otteniamo grazie all’evitamento è solo temporaneo e poi affrontare la situazione da cui fuggiamo sarà sempre più difficile.

Differenza tra ansia e paura
La paura può essere intesa come la valutazione automatica di una minaccia o di un pericolo percepito, l’ansia è, invece, un sistema di risposta più complesso che coinvolge fattori cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici.
Ad esempio, la paura è quella che sperimenti quando potresti incontrare un cane di grandi dimensioni che ti abbaia senza museruola. L’ansia, invece, è quella che potresti provare rispetto al futuro.
Sia l’ansia che la paura sono state esperienze fondamentali per la sopravvivenza della specie umana, poiché hanno preparato e preparano l’organismo a rispondere alle minacce e al pericolo.

Cause dell’ansia patologica
Non esiste una causa unica per l’ansia patologica. Ci può essere una predisposizione genetica familiare ad essere ansiosi, può essere influenzata dall’educazione ricevuta, dallo stress causato da un importante cambiamento nella propria vita (la perdita del lavoro, un trasferimento, un lutto, un incidente, la nascita di un figlio), dalla bassa autostima. Questi fattori interagiscono tra di loro in maniera e in misura diversa da persona a persona.
La ricerca empirica ha dimostrato l’esistenza di una trasmissione familiare dei disturbi d’ansia, di una vulnerabilità genetica che porta, dunque, alla loro insorgenza. È stato, inoltre, dimostrato che le donne, rispetto agli uomini, sono maggiormente predisposte allo sviluppo di tali disturbi perché sentono di più le emozioni negative.

I 4 passi per trasformare uno stato normale di ansia in uno stato d’ansia patologica:

  1. L’individuo valuta in modo erroneo le situazioni, vedendo una minaccia anche dove questa non corrisponde alla realtà osservata.
  2. Quando diversi aspetti della vita ne risultano compromessi: se, ad esempio, hai difficoltà a utilizzare i mezzi pubblici per raggiungere il posto di lavoro, o provi disagio quando sei al ristorante o in un centro commerciale.
  3. Quando persiste nel tempo e porta l’individuo a pensare anche a minacce di pericoli futuri senza avere prove che possano verificarsi. Si pensi a tutte le volte in cui si è preoccupati, ad esempio, di provare nuovamente le sensazioni esperite durante l’ultimo attacco di panico o si sperimenta un’intensa paura o panico, anche in assenza di reali stimoli minacciosi.
  4. Quando i segnali in grado di scatenare le risposte di paura sono molto più lievi rispetto a quelli percepiti dagli individui non ansiosi.

Quando l’ansia diventa un disturbo psicologico può avere delle gravi ripercussioni sulla qualità della vita di chi ne soffre. Tenderanno, infatti, ad evitare le situazioni e le persone che le spaventano, limitando la loro vita privata e professionale.

Il Trattamento dell’ansia
disturbi d’ansia possono essere curati attraverso:

  • il trattamento farmacologico;
  • il trattamento psicologico (supportato anche da libri di auto-aiuto).

Il trattamento farmacologico è efficace, ma spesso i disturbi d’ansia si ripresentano quando viene interrotto. Tra i trattamenti psicologici la Terapia Cognitivo Comportamentale si è dimostrata la più valida nella cura dei disturbi d’ansia. Il terapeuta aiuterà il paziente a conoscere e riconoscere l’ansia patologica e i suoi sintomi fisici, a interrompere il ciclo di tensione crescente attraverso l’individuazione dei pensieri ansiosi e l’insegnamento delle tecniche cognitivo-comportamentali per contrastarli (analisi dei pensieri disfunzionali, pratica graduale, referenting, distrazione, problem solving).
Verranno inoltre insegnate tecniche di rilassamento e di corretta respirazione molto efficaci per diminuire l’impatto delle sensazioni fisiche dell’ansia sul nostro organismo.

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Psicologa Ersilia Maria Tuosto © 2016 EmozionalMenteCorpo. All Rights Reserved.

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